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Capitolo 2.2 - La gioia nella fatica

Ripartimmo con lo stomaco pieno e gli istanti vissuti in quelle rupestri dimore impressi negli occhi e nell’anima. Il nostro cuore era ricolmo di gioia e le nostre moto sembravano percepirlo: le sentivamo, per così dire, più leggere e loro potevano percepire l’assenza di paura nel guidarle. Affrontavamo le curve di montagna le mani salde ai manubri: lasciavamo fossero loro a guidare noi. Anche nelle svolte più cieche, c’era fiducia reciproca.


La pioggia, ancora battente al momento della nostra partenza, sembrava non sfiorarci più. Le fatiche, fino ad allora insopportabili, erano svanite. Ci eravamo svestiti dei nostri pregiudizi occidentali per entrare veramente a contatto con quelle persone ed il loro puro modo di essere. Fu allora che ripensai a tutti gli attimi vissuti in quei giorni: la partita di calcio, il pubblico, la genuinità delle persone come Stephan o Thien, che inizialmente mi confondevano, mi si palesarono come fiducia nel prossimo. Iniziai anch’io, così, a ricambiare la fiducia verso quel chiassoso e particolare Popolo.


Per la prima volta mi immersi veramente nelle parole di Mirko e lo emulai: imparai a mettere in atto i suoi famosi “Click mentali”, e non solo fotografici ma anche emotivi, ed iniziai a farlo con tutti i sensi. Eravamo ripartiti da ormai mezz’ora quando presi coraggio e superai il mio amico per la prima volta. Il mio occhio, inconsciamente, cadde sullo specchietto retrovisore, come se fossi consapevole che ci fosse qualcosa da scorgere alle mie spalle. Vidi infatti, sulle labbra del mio compagno di viaggio, un sorriso. Fu allora che mi accorsi dell’involontaria espressione di gioia sul mio volto. Notai qualcosa di diverso in quella smorfia, come se fosse nuova, come se fosse la prima volta in cui mi vedevo sorridere. Eravamo felici, una di quelle felicità che non puoi dimenticare, perché ti segna nel profondo. Non sapevamo ancora cosa ci attendesse, né che avremmo mollato tutto per restare in Asia, ma quella fu la prima vera presa di coscienza che il nostro viaggio non sarebbe potuto restare solo una semplice avventura.



All’arrivo a Mộc Châu, bagnati fradici e pesanti dall’acqua impregnata nei nostri abiti, avevamo ancora quel sorriso stampato sulle labbra. Chiamai mia madre per la prima volta e le raccontai, con parole ancora confuse, quell’esperienza così unica. Ancora oggi, ad un mese da quell’undici Settembre, faccio molta fatica ad elaborare le emozioni di quel giorno: gratificazione, soddisfazione, contentezza, compiacimento, gioia, allegria sono tutti termini utilizzabili ma che non racchiudono davvero quegli attimi. Saranno sempre immagazzinati all’interno della mia anima, quei ventuno grammi chimicamente inspiegabili che compongono la parte più irrazionale ed emotiva dell’essere umano. Quei ricordi che, nei momenti di difficoltà, potrò sempre richiamare alla memoria per darmi conforto e forza nel superare gli istanti bui della vita, illuminando il mio sentiero. Nel nostro viaggio assieme, capiterà ancora che vi racconterà momenti simili.


Mộc Châu è una cittadina nella provincia di Son La, immersa in una vallata e circondata dalle montagne. Le poche distese di gelsomino e loto rimaste a seguito del Tifone, con cui in queste zone viene prodotto il Trà (the locale), inebriavano le nostre mucose nasali. Sembrava quasi che la pioggia ci stesse dando un premio per i nostri sforzi: essa, infatti, enfatizzava quelle appassionanti fragranze che ci facevano velocemente scordare i miasmi cittadini. Ripensai a casa ed a quel giorno di metà giugno quando, io e Mirko decidemmo di viaggiare per il Vietnam: quell’aroma delizioso, che improvvisamente mi rimandava alla mia amata casa, quel giorno mi sembrava nuovo. Mi resi subito conto che la novità non derivava dal profumo, ma dalla mia persona: il mio naso, come il sorriso, era in realtà cambiato, in quanto cambiata la mia anima. Anche questo istante rientra a pieno titolo in uno di quei “Click mentali” tanto cari al mio sodale, non tracciabili da una macchina fotografica ma riaffioranti solo dalla memoria e dalla scrittura, tracce incancellabili di quelle sensazioni sensoriali così profonde.


Le fatiche del viaggio si palesarono dopo la doccia, rigorosamente fredda, a cui io e Mirko ci sottoponemmo. Eravamo stanchi, ma i nostri animi e le nostre menti erano troppo curiose di scoprire quei luoghi meravigliosi. Ci addentrammo così in Mộc Châu , accompagnati dalla nostra fedele compagna, la pioggia, inesauribile ed instancabile, come gli abitanti di quella cittadina di montagna. Notammo subito la forza del fiume, già rapida di suo, aggravata dall’ingente quantità d’acqua. Sottolineammo che, nonostante la furia delle acque, gli argini stavano tenendo grazie all’immediato intervento umano. Ridemmo, visto che la calamità naturale era ancora presente ma non stava scalfendo gli animi degli alacri lavoratori vietnamiti, già all’opera per ricostruire e rinforzare gli argini del fiume che sfocia nelle famose cascate di Mộc Châu. Il verde dei campi di Trà xanh (the verde), accompagnava i nostri passi e l’ordine degli arbusti aveva lasciato il posto al caos creato dalla natura.

Continuammo il nostro percorso, segnato dalla strada, fino ad arrivare in città: eravamo soli, gli unici due occidentali in tutta la valle. Il primo incontro umano avvenne dopo circa quindici minuti di passeggiata: vedemmo in lontananza una Bà, avvolta da un maglione di cotone rosso e con una corda tra le mani, trainante una vacca da latte, animali molto presenti in quel luogo. Al suo seguito, ma non legate, una dozzina di vacche che, ordinatamente ed in fila indiana, seguivano quel Nón lá in bamboo che ne tracciava il sentiero. Con un cenno del capo ed un sorriso appena accennato, ci diede il benvenuto all’interno della cittadina.



Gli occhi esterrefatti degli abitanti del luogo erano fissi su di noi e potevamo percepirli. Come George Clooney e Brad Pitt sulla passerella rossa, camminavamo in ciabatte e canotta circondati dallo sgomento generale per i tatuaggi che macchiavano le nostre braccia e per i cappellini con la visiera al contrario che coprivano i nostri capi. Ci sentivamo osservati e notammo più volte dei ragazzi ripercorrere in motorino la nostra strada, al fine di incrociare i nostri sguardi. Come gli attori holliwoodiani, anche noi salutavamo i nostri paparazzi con serenità e gioia, continuando la nostra camminata decisa. Ad un certo punto, però, arrivati nei pressi di una struttura battente le ormai classiche bandiere rosse e gialle, la quiete del paese fu stravolta: una fila copiosa di macchine tagliava la strada e ci sembrò di essere tornati in città. Erano tutti fermi ad aspettare qualcosa. Non capivamo cosa, finché non spuntò dal cancello della struttura un gruppo di bambini vestiti in divisa ed insieme, io e Mirko, esclamammo: “È una scuola!”. Gioimmo alla vista di quei giovanotti al massimo dodici anni che uscivano dalla scuola, in quanto sapevamo avrebbero fatto di tutto per strapparci un saluto. Fu emozionante scorgere l’emozione nei loro volti appena incrociavano il nostro sguardo. Mirko si pentì molto per non aver con sé la macchina fotografica. Erano tutti ben disposti ad essere fotografati e chiunque avrebbe pagato per finire nel rullino di quei due strani occidentali che avevano attraversato una vera e propria tempesta per giungere fino a loro. Anche in questo caso, come accadde ad Hanoi, ci limitammo a vivere l’esperienza senza troppo investigare sul perché fossero così incuriositi ed ammaliati alla nostra vista. Ne scoprimmo la ragione più tardi, durante la nostra prima esperienza di volontariato.


Ritornammo in albergo baldanzosi e, dopo una abbondante cena a base di salmone, stanchi morti ci coricammo in un batter d’occhio sugli scomodissimi e durissimi materassi vietnamiti. Prima di addormentarci, Mirko si voltò e mi disse: “Sai che non ti avevo mai visto sorridere in questo modo prima d’ora?”. Mi voltai, sorrisi e chiusi gli occhi pensando: “Nemmeno io”. Il giorno successivo ci attendeva un altro viaggio, un’altra avventura alla volta di Ninh Binh, la prima città turistica che avremmo visitato.



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