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Capitolo 2.1 – Il calore dei gesti

Alle 5 di mattina di quell’undici settembre, Hanoi era già in movimento. I clacson ed il vociare delle

persone accompagnava il fermento nelle nostre anime. Ci fiondammo in un Circle-K, un supermercato

molto comune in Asia, per acquistare qualcosa da mangiare e da bere per il viaggio, anche se l’acqua

scendeva già copiosa dal cielo. La pioggia, infatti, era costante da giorni e nè io nè Mirko eravamo pronti

per ciò che avremmo visto nelle ore successive.


Uscire dalla città di Hanoi fu un delirio. Il cuore mi batteva a mille, spaventato per la gestione della

motocicletta sotto la copiosa pioggia e per il timore che la polizia vietnamita mi fermasse, in quanto

stavo guidando una moto superiore al limite di cilindrata a me consentito dalla patente B italiana. A un

quarto d’ora circa dalla nostra partenza, ci trovammo su un viale a quattro corsie con centinaia di

motorini che, come sciami di api, vagavano senza sosta nè direzione, all’interno dell’alveare cittadino

composto da palazzi e ponti sospesi nel nulla, che tagliavano lo scheletro dell’arnia artificiale in cui

queste operose api circolavano per raggiungere il loro lavoro. Ai nostri occhi, quel via vai di motorini era

uno spettacolo sinfonico ed inarrestabile. Ci sentivamo parte della folla e proseguivamo sulla nostra via,

cercando di evitare qualsiasi tipo di incidente. Fu allora che ci confrontammo davvero con quello

stereotipo mai così veritiero della pessima guida asiatica: gli specchietti, per chiunque in Vietnam, sono

ornamentali, strumenti posti semplicemente per omologare il mezzo. La realtà dei fatti è che spesso le

persone autoctone, dopo aver acquistato un motociclo, ne smontano gli specchietti per comodità.


Tra uno slalom ed un altro, finimmo quell’immenso tratto stradale ed uscimmo dalla città di Hanoi per

entrare nella CT03, strada che conduce alla periferia. Fu lì, per la prima volta, che ci rendemmo conto

della distruzione portata da Yagi e notammo il lato oscuro della crescita demografica spropositata che la

città ha subito nel XX secolo: la periferia, infatti, è una vera e propria baraccopoli. L’odore di acido

derivante dalle fabbriche e dalla completa inefficienza dei tombini, che comportava il ristagno dell’acqua

piovana è ancora presente all’interno delle nostre narici. E in aggiunta, tutto era addirittura peggiorato

dalle condizioni climatiche che rendevano le strade non praticabili. Le migliaia di motorini che

provenivano dall’opposto senso di marcia, andando verso la frenesia della città ormai prossima al

risveglio, si adattavano come potevano: chi invadeva l’altra corsia, chi invece procedeva sulla pseudo

carreggiata fangosa a bordo strada, chiunque trovava il modo per proseguire. Esterrefatti e un po’

spaventati, io e Mirko procedevamo dritti, adattandoci a quello sciamare di moto. Il paesaggio urbano

era intervallato da ponti sventolanti la bandiera comunista, alternata alla classica stella gialla a sfondo

rosso simbolo del Vietnam. Alle spalle delle grandi distese di amianto, che fungono da tetti per quelle

bidonville, si potevano scorgere i primi scorci della natura vietnamita: gli alberi di teak, infatti, grazie alla

loro altezza e colore verde così acceso, abbracciavano quel degrado, come fratelli maggiori.

Ricordo il batticuore appena arrivammo alla prima dogana provinciale, quella che separa la provincia di

Hanoi da Hoa Binh. La struttura era imponente e datata, sicuramente risalente al periodo bellico.

Le mie mani iniziarono a tremare, spaventato da un possible posto di blocco e la mia

sudorazione si faceva sempre piu’ copiosa. Guardai scrutando chi ci fosse dietro di me e tirai un sospiro

di sollievo: alle mie spalle, notai alla guida di uno scooter un ragazzo al massimo sedicenne, senza casco

e con il cappuccio di un poncho a coprirgli il capo. Alle sue spalle, in sella allo stesso motorino, altri due

ragazzini della sua età , se non più piccoli. Ringraziai questo meraviglioso paese, rimisi la quarta e passai

sfrecciando al di sotto della maestosa struttura.

 


Finimmo quel tratto di strada che a noi parve infinito, ma che in realtà è di soli 70 km, in quasi tre ore.

Pensammo che il peggio fosse passato e, all’altezza di TT. KY Son, decidemmo di fermarci per una breve

pausa. Eravamo completamente fradici. Capimmo che I nostril K-Way occidentali e le nostre Dottor

Marteens non avevano alcun mezzo per contrastare la potenza di fuoco delle calamità naturali

vietnamite. Lì ci apparve uno degli spettacoli più terrificanti che la natura potesse mostrare: il fiume

Nero, maggior affluente del fiume Rosso, aveva completamente devastato gli argini. A distanza di pochi

kilometri, un ponte era crollato. Eravamo esterrefatti dal panorama cupo palesato: i nostri sensi erano

completamente fuori gioco. I nostri occhi, sbarrati da così tanta devastazione, cercavano di catturare

ogni attimo di quel paesaggio: il colore del fiume, già scuro di suo (come del resto si evince dal nome) a

causa dei giacimenti carboniferi in superficie, completamente sotterrati dalla enorme quantità d’acqua,

era purpureo, tendente al nero , come una chiazza di sangue colante. I detriti al suo interno erano di

ogni genere: vesti, giocattoli e lamiere provenienti dalle case degli sfollati uniti ai pezzi ferrosi del ponte,

sarebbero poi finiti nel suo gemello, il fiume Rosso ed infine nel golfo del Tonchino. I miasmi provenienti

dalle sue acque erano pesanti ed indefinibili, un potpourri di odori che invadeva i nostri polmoni . Le

nostre mani, intorpidite dal freddo e rese rugose dall’acqua, non avevano più tatto; il nostro udito e la

nostra voce venivano resi vani dal frastuono derivante dal fiume e dal vento. Eravamo completamente in

balia di quei luoghi e dell’angoscia che causavano dentro noi.



Risalimmo in sella alle nostre moto, traumatizzati dal panorama circostante e ripartimmo. Svoltammo a

sinistra per entrare nella CT02, una strada che inizialmente costeggiava il fiume, per poi salire in quota.

Dai 19 metri sopra al livello del mare di Hanoi avremmo dovuto compiere 915 metri di dislivello,

giungendo così a Moc Chau. In quel tratto di strada ricco di curve e panorami di montagna, potevamo

scorgere alcune delle meraviglie naturali vietnamiti: alla nostra destra, riuscivamo ad intravedere solo i

tronchi delle famose montagne di marmo vietnamite, tagliate dalle fitte nuvole basse che circondavano

la zona. Come nel celeberrimo quadro de “Il viandante su un mare di nebbia”, i nostril animi erano ricchi

di stupore e meraviglia, quasi indescrivibili. La forza di quella irrazionale e potente matrigna, la natura,

fece tribolare i nostri cuori ed il senso di sublime invase e pervase la nostra anima. Eravamo ammaliati

fino al terrore dal bianco cobalto del marmo, contrastato dal nero delle nuvole. Il colore brizzolato delle

lamiere della baraccopoli aveva lasciato spazio ad una tavolozza di tinte differenti, derivanti dalla flora

spettacolare del nord del Vietnam: il rosso acceso, quasi fuoco, degli alberi reali di poinciana si alternava

al giallo dei jackfruit ed al verde, predominante in tutta la zona, del teak e del bamboo. La vastità di colori veniva talvolta interrotta dal verde delle risaie e dai piccolo villaggi, baracche in bamboo e mattoni, in cui vivono i lavoratori di riso da generazioni.


Io e Mirko eravamo scioccati e distrutti ma innamorati dei panorami. Le emozioni dentro al nostro

animo erano contrastanti ma i nostri cuori erano ricolmi di gioia. Per la prima volta in vita mia, mi

sentivo vivo. Non avevo paura, né timore, solo voglia di proseguire la strada. La stanchezza era solo

mentale, il mio corpo era affamato di vita e quell’esperienza me ne stava dando molta. Le emozioni dei

giorni precedenti alla partenza, la tristezza, l’ansia e l’inquietudine erano completamente svanite. Fu la

prima volta in cui pensai che volevo trasformare quelle esperienze nella mia vita, senza che fosse un

capo a stabilire quando dovessi viverle. Mi sentivo libero e vivo, sentivo finalmente me.

Ci fermammo appena la pioggia ed il panorama concessero un po’ di tregua. Viaggiare con un fotografo

impone di stare anche ai suoi ritmi dettati dagli scatti: mai come quel giorno ringraziai per gli scatti il mio

compagno di viaggio ed il suo occhio scorse uno spiazzo apparentemente isolato, da cui avremmo potuto scorgere meglio le montagne.



Il paesaggio era maestoso e mentre Mirko tentava di scattarmi qualche foto, io ero immerso nei miei pensieri ed immaginavo la quantita’ di trappole mortali e cadaveri nascosti ancora in quella jungla, ormai consumati dal tempo e divenuti cimeli di una guerra crudele. Scorsi improvvisamente sullo strapiombo altre lamiere. Incuriositi da quelle rupestri strutture, a strapiombo sulla montagna, ci dirigemmo, come consuetudine, senza nemmeno doverci confrontare. Ci fiondammo lì in un batter d’occhio e capimmo che era una casa dagli escrementi umani che ci accolsero all’ingresso. Entrammo dubbiosi ma la curiosità superava ogni genere di imbarazzo o pudore. Notammo subito delle amache, sul lato sinistro del corridoio, che affacciavano sulle risaie: il rumore della pioviggine batteva sulle lamiere che fungevano da soffitto. Ci inolltrammo in “soggiorno”, che capimmo essere tale dal fumo del fuoco, coperto da un muretto, che cercava un qualche sfogo nei piccoli fori dell’amianto. Ai suoi piedi,

una signora sulla settantina che, accovacciata nei pressi delle fiamme, ne dava forza con dei corposi

soffi. Sul tavolo , oltre al classico cilum vietnamita, uova freschissime e sode. La “bà”, inizialmente

spaventata alla vista di due occidentali bagnati e tremolanti, ci offrì un sorriso stracolmo di gioia e senza

dire una parola ci invitò a sederci, avvicinò delle uova e versò del the caldo. Affamati ed infreddoliti, ormai erano quasi le nove di mattina, non ci facemmo ripetere l’offerta, dicendo tra noi: “tanto sono sode, che cosa potranno mai farci?”. Alle sue spalle, c’era un signore di età vicina alla sua, probabilmente un reduce della guerra terribile che aveva distrutto il paese. Lo si poteva scorgere dallo sguardo e leggere nei suoi occhi: erano rigidi, fermi e soprattutto senza alcuna empatia nei nostri riguardi. Contrariamente alla presumibile moglie, che con suoni onomatopeici e curiosi ci chiedeva come funzionassero le nostre

attrezzature tecnologiche, lui era rigido sui suoi fogli, mentre consumava il suo bong di tabacco. Era

schivo e di rado ci concedeva uno sguardo. Però, ogni qualvolta la nostra tazza artigianale in ceramica

era in procinto di rimanere vuota, con inconsueta gentilezza e prontezza le riempiva, ritornando poi

prontamente al suo posto. Non ci fece alcun saluto, nè cenno con la testa, ma l’attenzione con cui

osservava le nostre bevute era ricolma d’amore, non tanto nei nostri confronti , quanto verso l’ospite in

sé. Terminammo la nostra colazione e ringraziammo. Mirko riuscì ad ottenere anche qualche scatto,

non dall’uomo, restio a comunicare con noi, ma da tutti gli altri abitanti di quella curiosa dimora,

comparsi come funghi in autunno dopo aver visto quattro grossi occhi tondi stanziati nel loro salotto. Ci

alzammo, ringraziammo inchinandoci, uscimmo dal tugurio ancor più innamorati di quei luoghi e di

quelle splendide persone. Nel risalire in sella alla mia compagna a motore, ripensai ai momenti vissuti in

quel luogo e dal mio inconscio riaffiorarono i ricordi delle scuole e della “xenia” (ospitalita’) greca. Il

ricordo del popolo dei Feaci, che offrirono ad Ulisse la nave per tornare nella sua amata Itaca, pur

consapevoli che la funesta ira di Poseidone si sarebbe scagliata su di loro, mi accarezzò l’anima e mi fece

riflettere sull’importanza di tale valore nella vita.


Quelle persone ci avevano letteralmente offerto tutto ciò che avevano, senza che noi facessimo nulla. In

silenzio, hanno creato un legame inscindibile tra noi e loro. Ci hanno mostrato per la prima volta, il

calore dei gesti.


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