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Capitolo 1.2 - Il potere della semplicita'

Il risveglio fu traumatico e per prima cosa andammo a cercare le moto. Trovammo subito Stephan, un ragazzo francese che si trasferì in Vietnam diversi anni fa. Era un ragazzo molto accogliente e gli demmo subito fiducia, forse un po' condizionati da quei due occhi a palla che ci fecero ricordare casa. Decidemmo per il rent di due Honda XR 150, mezzi necessari per viaggiare i più di 2000 km che ci avrebbero atteso lungo la strada da Hanoi ad Ho Chi Minh. Ci accordammo per il ritiro delle stesse alla sera, cosicché al sorgere del sole successivo saremmo potuti partire per il nostro viaggio. Stephan ci diede dei grandi consigli, derivanti dalla sua conoscenza dei luoghi e ci aiutò a stabilire il nostro Road trip anche in virtù del tifone Yagi che in quei giorni stava distruggendo il sud est asiatico durante questa stagione dei Montoni.

 

Nel primo pomeriggio, ci dirigemmo ad una Chúa locale, molto turistica, dove effettuammo qualche scatto e chiedemmo al Buddha una benedizione per il nostro viaggio. Fortunatamente, non ne avevamo bisogno, in quanto la spiritualità di quel paese stava già vegliando su di noi. La Chúa era sfarzosa e ricca ma i nostri scatti si sono soprattutto concentrati sul popolo; non solo gli scatti fotografici, bensì anche e soprattutto quelli che abbiamo effettuato con gli occhi, quelli che a Mirko piace chiamare “Click mentali”. A fianco alla Chúa, incontrammo una donna che lavava i panni nel fiume, con la cura e la dedizione di una madre ed il classico cappello in bambù che le donne vietnamite utilizzano per proteggersi dal sole. Eravamo ammaliati dalla semplicità con cui queste persone vivono e svolgono le loro mansioni: le loro case, spesso piccole baracche circondate da sfarzosi palazzi occidentali, non venivano toccate dalle influenze turistiche ormai incessanti; così, i lavori casalinghi, come il bucato, che ormai noi occidentali senza una lavatrice non possiamo fare, per loro è normalità svolgerlo agli argini dei fiumi. La natura può ausiliarci nella pratica di tali lavori senza il dispendio monetario.



Mentre mangiavamo dell'ananas acquistato dalla bancarella al di fuori della pagoda, decidemmo di dirigerci all'appuntamento con i bambini. Dopo aver salutato la signora che ci aveva venduto la frutta, che ci omaggió con un meraviglioso sorriso senza denti, mezzo volto coperto dall'iconico nón lá e due ciocche di capelli che le tagliavano il viso, ci incamminammo verso il parco.


Stanchi, affamati ed un po' agitati per il viaggio che ci avrebbe atteso il giorno dopo, ci approprinquammo all'appuntamento con Thien ed i ragazzi. Eravamo in ritardo di mezz'ora e, al nostro arrivo al parco, sembrava non ci fosse nessuno.. poi, dalle spalle di una statua al centro del verde prato, scorgemmo il volto di Thien. Era entusiasta di vederci e questa volta aveva al suo seguito alcuni amici, tra cui Louis, un ragazzo francese trasferitosi in Malesia per studiare. Con loro vi erano anche un bambino ed un signore anziano, anche se giocava a calcio come un ventenne. La partita fu combattutissima, ma io, Thien ed il signore portammo a casa la vittoria. Ci divertimmo un mondo e le nostre risate potevano essere percepite a kilometri di distanza; difatti, come accadde il pomeriggio precedente, anche allora ci trovammo circondati da spettatori non paganti che, incuranti della pioggia ed incuriositi dal quel miscuglio etnico, erano capitati li ed avevano deciso di rimanere. Mi sono chiesto a lungo cosa spingesse quelle persone ad osservarci così meravigliate giocare a calcio sotto la pioggia incessante di quell'inizio settembre: capii solo dopo qualche giorno, durante il viaggio di ritorno da Moc Chau, che essi erano spinti dalla spontaneità dei nostri gesti e dall'alfabeto onomatopeico da noi utilizzato. Noi non parlavamo vietnamita (nè tantomeno Louis) e loro biascicavano qualche parola d'inglese ma i nostri occhi e le nostre anime comunicavano tra di loro in una sinfonia di pensieri ed emozioni.

 

Giunto ormai il buio, salutammo i ragazzi con un caloroso abbraccio, ci avvertirono di prestare attenzione in moto, in quanto la nostra prima tappa (Moc Chau per l'appunto) era in quel momento nell'occhio del ciclone. Abbastanza non curanti del pericolo e sicuramente ancora inconsapevoli delle nostre capacità motociclistiche ricambiammo il saluto ed andammo via, carichi di emozioni.

 

Arrivammo da Stephan e ritirammo le moto. Poi dopo una cena abbondante nel ristorante che ci aveva tanto calorosamente accolto la mattina stessa, come promesso ai nostri amici di sbronza, decidemmo di coricarci, puntando la prima sveglia della nostra nuova vita (anche se ancora non lo sapevamo) alle 4,30.


Alle 4,30 puntuali di quell'undici settembre, mentre il mio telefono iniziava a raccontare il dramma delle torri gemelle di ventitré anni fa, la sveglia suonò. L'adrenalina mi fece passare la notte insonne; anche Mirko non chiuse occhio, percepii la sua agitazione delle sue poche parole. Finsi di non scorgere tale emozione nel suo volto ed a mia volta mi rasserenai. Nulla poteva andare storto.

I rumori della città e le sue luci erano ormai in procinto di accendersi, gli strascichi del tifone erano ancora presenti e la pioggia non aveva alcuna intenzione di fermarsi, ma nemmeno noi avremmo mai accettato una sconfitta.

 

Liberammo le moto dalle loro catene d'acciaio legammo gli zaini al portapacchi, mano sulla frizione, prima marcia in giù e via verso Moc Chau.



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